Le Competenze trasversali
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1 Febbraio 2024Leadership e Capitale Umano in azienda, una visione disruptive ma non troppo di Pio Giottini Country Head Adecco Slovenia
Quale e’ la tua idea di Capitale Umano?
Il capitale umano e’, come tutto il resto, un asset aziendale.Ma a mio avviso e’ il principale asset aziendale da cui tutto puo’ nascere e prosperare. La distinzione di aziende capital intensive e labour intensive a mio avviso regge poco. Le aziende capital intensive richiedono grandi investimenti in macchinari e attrezzature per produrre beni o servizi ma e’ attraverso il fattore produttivo lavoro che tutto assume un valore. Dietro ogni impianto c’e’ sempre il fattore umano che permette il corretto utilizzo e sviluppo di esso.
Com’e cambiato l’approccio dei leader aziendali rispetto al capitale umano, in particolare dopo l’emergenza epidemiologica?
Sono un fautore della leadership visionaria e democratica attraverso la quale si puo’ ottenere un pieno coinvolgimento delle proprie risorse. E’ uno stile molto rischioso che impone un continuo confronto con gli stakeholder aziendali, ma e’ quello che consente di avere dei benefici di lungo termine. Tornando alla domanda, devo ammettere pero’ che durante momenti di grande incertezza e’ necessario assumere un atteggiamento piu’ direttivo. Le persone vogliono essere rassicurate richiedendo precise istruzioni su cio’ che bisogna fare per uscire dall’incertezza. Si affidano completamente al proprio capo vedendo in lui il leader che sara’ in grado di tenere la barra dritta ed uscire dalla tempesta con meno danni possibili. Questo e’ esattamente lo schema che i grandi dittatori del passato hanno utilizzato facendo leva sulla paura delle persone. L’ascesa di Hitler e’ iniziata alla fine della prima guerra mondiale con la Germania sconfitta. La crisi economica del ’29 ha poi definitivamente consentito al dittatore di prendere pieni poteri. Anche qui la leva e’ stata l’incertezza e la paura del domani. Il popolo tedesco ha visto in Hitler non un pazzo dittatore ma un visionario che poteva portare la Gemania a primeggiare sul resto delle altre nazioni. Per concludere, in momenti di emergenza c’e’ bisogno di leader onesti che devono trasformarsi in manager, chiamati anche a scelte dolorose ma con il solo obiettivo di fare del loro meglio per tutelare gli interessi dell’intera comunita’ aziendale.
Chi, in azienda, e’ chiamato ad occuparsi del capitale umano?
Un errore diffuso e’ quello di pensare che la funzione HR sia deputata ad occuparsi delle persone. Questa e’ una visione old style infatti a mio avviso il direttore risorse umane e’ l’ultimo anello della catena. Le corrette politiche di gestione del personale sono il frutto degli input che ogni manager in azienda deve condividere al fine di consentire alla funzione HR di immaginare persorsi di sviluppo. Questo, molto spesso, e’ legato anche ai valori aziendali. Si sente da ogni parte il termine People First, ma quanto questo e’ vero rispetto alla logica di miopi strategia di massimizzazioni di breve termine?
Come si gestisce il capitale umano in azienda? Quali sono i driver?
I veri leader sono a meta’ tra un ombrello ed un paracadute. La fortuna di un collaboratore e’ quella di trovare un capo cosi’. Piu’ che insegnare ai nostri collaboratori come avere successo dovremmo prima mostrare loro come fallire. Il compito del leader e’ quello di attenuare gli impatti del fallimento sia a livello di risultati che emotivo. Essere ombrello significa proteggere le persone dalla pioggia ma per quanto possa essere grande l’ombrello le persone si bagneranno sempre ma non lo saranno completamente. Questo e’ il giusto compromesso. Quando poi l’altitudine dei compiti diventa importante in quel momento bisogna essere dei paracadute per consentire ad essi un atterraggio morbido.
Come si valorizza?
Dedicando loro del tempo. Dedichiamo 4 mesi l’anno al budgeting, ma non parliamo mai dei nostri collaboratori. Non sono forse i nostri collaboratori a determinare i nostri risultati?
C’e’ differenza tra il concetto italiano di capitale umano e quello europeo?
La globalizzazione ha consentito anche uno sharing di stili. Non c’e differenza a livello europeo. Credo, invece, ci sia ancora un profondo gap di cultura HR con i Paesi asiatici.